“Sursum Corda – Dio Matura”
Stralci, tradotti in italiano, della Lettera “Sursum Corda – Dio Matura” che il nostro vescovo Mons. Fernando Panico msc, ha scritto in occasione del 50° anniversario dalla sua ordinazione presbiterale al popolo di Dio che sta in Brasile.
Pensata in preghiera come Lettera del cinquantesimo anniversario della mia Ordinazione Sacerdotale avvenuta il 31 ottobre 1971, offro queste riflessioni come un testamento pubblico della mia vita, partendo dalla Buona Novella di Gesù Cristo.
“In alto i cuori !” Questo è il motto del mio servizio sacerdotale ed episcopale, parole intrise di fiducia e di impegno, parole programmatiche, incoraggianti e trasformative. Ho sempre dinanzi a me la sfida di una Chiesa missionaria e pellegrina, che cammina con i poveri e gli umiliati della vita, illuminata dalla luce della speranza della Croce di Cristo.
Cuori in alto! È un invito che ci spinge a rispondere alla grazia di Dio che ci attira a Lui. Ora, però, ho qualcosa di nuovo/antico da aggiungere, a complemento del titolo di questa mia Lettera di Testimonianza: DIO MATURA. All’inizio non capivo cosa ciò potesse significare. Mi sono rivolto a un illustre biblista e teologo, il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, per aiutarmi a decifrare l’espressione, il cui autore è un poeta austriaco del XX secolo, Rainer Maria Rilke.
Ecco la spiegazione del Cardinale Ravasi: “DIO MATURA” é in riferimento al mistero della divinità che è indipendente da noi, i cui modi o pensieri non sono i nostri e hanno un proprio sviluppo di pienezza”.
Dal “Dialogo con Dio” di Rilke, le parole citate, nel contesto della poesia, sono:
“… quando una montagna contiene oro, e nessuno vuole scavarlo, un giorno lo porterà in evidenza il fiume, che nel silenzio lavora le pietre. Anche se non lo vogliamo: Dio matura”.
Rileggendo e pregando l’azione di Dio sul mio cammino, confesso che l’impatto dell’affermazione: “Anche se non lo vogliamo, Dio matura”, mi ha riempito di sorpresa e gioia. Leggendo e ruminando questi versi durante l’isolamento in isolamento a Roma nel 2020, al culmine della prima ondata della pandemia COVID-19, ho sentito una profonda pace interiore. Ho preso il tempo per calmare il mio spirito, meditare e pregare sulla vita che ho vissuto, specialmente negli ultimi due decenni, rivedendo, come in un film, i momenti più significativi della mia avventura umana e sacerdotale. Fare questa memoria, o “ricordo della vita”, mi ha aiutato a non perdere la grazia di prepararmi spiritualmente alla celebrazione del mio giubileo sacerdotale. Sono grato al filosofo-poeta Rilke per questi versi che hanno ancvhe illuminato l’avventura di una giovane scrittrice ebrea olandese, Etty Hillesum, vittima dell’Olocausto nel 1943.
Ho imparato che il tempo di Dio è ADESSO, e che il mio tempo è una successione di ADESSO per accogliermi nella Santa Trinità. Nel susseguirsi degli adesso della mia storia, l’ADESSO di Dio prevale, e DIO MATURA!
Ho scoperto in ogni momento che non c’è vita senza prove, e Paolo ci ha dato un righello e una bussola: “Non siete stati messi alla prova oltre ciò che è umanamente sopportabile. Dio è fedele e non permetterà che siate messi alla prova oltre le vostre forze. Al contrario, insieme alla prova, egli vi darà i mezzi per sopportarla ed essere liberi” (1 Cor 10,13).
Ho imparato, poco a poco, che la vita è questo istante preso in prestito e che quando si dà un SI a Dio, solo resta dire AMEN nel corso dell’esistenza. Non è la sopravvivenza nel tempo autunnale che è decisiva, ma l’esperienza di ogni nuova alba. Il tempo cronologico, Chronos, che è il tempo della morte, deve scomparire affinché Kairós, il tempo opportuno, possa prendere il suo posto. Perché Kairós è fratello della vita, Zoé, e ogni istante, quando si compie, diventa un’anticipazione del godimento eterno e perfetto della vita.
“Per ogni cosa rendete grazie, perché questa è la volontà di Dio” (1 Ts 5,18).
Giubileo è celebrare (rendere famoso, importante) il ricordo di passaggi di vita che hanno originato o segnato la nostra esperienza. Meritano, quindi, di essere ricordati, ringraziati, attualizzati, perché portano i semi del passato per il presente e il futuro.
La nostra fede cristiana vive di “Fate questo in memoria di me”. E l’Eucaristia, ringraziamento per eccellenza, è il paradigma di lode e ringraziamento al Padre per tutto ciò che ci dà gratuitamente. Così, Giubileo ed Eucaristia vanno insieme, a braccetto.
Questo Giubileo è pieno di “Dio matura”, illustrando e rivelando il meraviglioso mosaico della Bellezza divina nella mia storia, riconoscendo che “Dio scrive dritto su linee storte”. Come su un telaio, intrecciando fili di diversi colori, Dio sta facendo il suo lavoro in me e in tutti. Stupito, riconosco umilmente, sull’esempio del Magnificat della Vergine Maria, che “il Signore ha fatto cose meravigliose in me” e, nella mia piccolezza di creatura, le sue mani fanno di me capolavoro unico del suo cuore misericordioso. A Lui sia la gloria.
Lodo Dio per la famiglia che mi ha fatto nascere e mi ha accolto come un dono di Dio, con amore. Mio padre, Vito, era un agricoltore, mia madre, Lucia, ha fatto della famiglia la sua vocazione e missione di moglie e madre cristiana. Sono il figlio più giovane. Ho quattro fratelli, Carmine (in memoria), Ippazio, Luigi e Tommaso. Sono nato nella penisola salentina, nel sud delle Puglie (Lecce), in una famiglia con radici culturali, sociali e religiose, eredità di antenati bizantini provenienti dalla vicina Grecia. Le tracce di questa migrazione nella “Grecia salentina” rimangono nella lingua dialettale simile al greco.
La storia della mia terra natale è legata a una migrazione di monaci basiliani dalla vicina Grecia che costruirono cappelle di rito orientale bizantino e contribuirono notevolmente allo sviluppo economico e sociale della zona. Tra il IX e il X secolo, il Salento affrontò le incursioni dei saraceni, ma il popolo non si arrese all’Islam e resistette fino al martirio. Posso dire con gratitudine che sono nato in una famiglia segnata dalla fede e dalla testimonianza dei martiri. E, come diceva Tertulliano, “il sangue dei martiri è il seme dei cristiani”. Negli ultimi cento anni, la mia famiglia di sangue è stata benedetta con il sorgimento di vocazioni sacerdotali e religiose: da parte paterna, siamo tre sacerdoti e vescovi, e tre suore; e da parte materna, un altro sacerdote. Di questa “abbondanza”, io sono l’ultimo… per il momento!
Quando, nell’aprile 1993, ricevetti dalla Congregazione dei Vescovi la comunicazione che il Papa Giovanni Paolo II mi aveva scelto vescovo della diocesi di Oeiras-Floriano, nel Piauí, diedi delle ragioni che a me srembravano sufficienti per rifiutare la nomina. Ho presentato tre argomenti: in uno di essi menzionavo che nella mia famiglia di sangue c’era già stato uno zio vescovo e cardinale e che anche un cugino era vescovo. Ritenevo che la scelta della mia persona per l’episcopato potesse essere vista come una manifestazione di nepotismo nella Chiesa. Volevo “insegnare il Padre Nostro al vicario”: in questo caso, al Vicario di Cristo, il Papa. In quel momento mi sentii ridicolo, quando, senza ulteriori indugi, arrivò la risposta del cardinale prefetto: “Il Papa conosce i precedenti episcopali nella sua famiglia. Ció nonostante, vuole nominarla vescovo. Lo Spirito Santo soffia come vuole, quando vuole e dove vuole. Il Papa ha pregato, ha riflettuto e deciso”. Ha aggiunto: “Lei é libero di accettare o no, ma rifiuterà la volontà del Papa?”. Ho finito per accettare la volontà di Dio manifestatami da un santo Papa: San Giovanni Paolo II.
Tre Papi, santi canonizzati, fanno parte della mia storia vocazionale: San Giovanni XXIII, Papa durante gli anni in cui ero alunno nel Seminario Romano Minore (1959-1962); San Paolo VI, il Papa della mia ordinazione sacerdotale (1971); e San Giovanni Paolo II, che mi ha eletto vescovo (1993).
Una parentesi curiosa sul mio cognome “Panico”, che nasconde una possibile origine greca (pan + niché, cioè: vincitore in tutto). In Brasile, però, questo cognome, se distorto foneticamente e morfologicamente, diventa pericoloso quando l’accento viene posto sulla prima sillaba o, peggio, quando le vocali vengono scambiate. In Itaici, all’Assemblea Generale della CNBB nel 1994, ero un vescovo di nuova nomina; è consuetudine che i nuovi vescovi si presentino agli altri vescovi. La mia presentazione è stata succinta e enfatica: “Mi chiamo Fernando Panico, né Pânico né Pinico” (che nella lingua portoghesa corrisponde a “orinale”…. I vescovi reagirono alla mia presenazione con risate.
Oggi non ho più problemi con il mio cognome, perché so che “panico” in portoghese può significare “panino” o “un pezzo di pane”, come canta P. Zezinho: “Con un pezzo di pane e un poco di vino, Dio si fece alimento e cammino”.
Sinceramente, mi piace molto questa lettura… eucaristica e di pellegrinaggio! La parola chiave e ispiratrice per capirmi nei piani di Dio e vivere la mia vocazione nel mondo e nella Chiesa è: “pezzo di pane”. E questo mi mantiene umile e fiducioso.
A proposito di pane, ricordo un fatto accaduto all’inizio della mia vita missionaria in Brasile, negli anni Settanta del secolo scorso, quando ero un prete giovane, forte e simpatico, appena arrivato da Roma a Pinheiro, nell’interno del Maranhão. Non parlavo ancora bene la lingua portoghese e non potevo nemmeno capire le sfumature e i doppi sensi di certe espressioni popolari. Stavo tenendo una lezione di educazione religiosa a un gruppo di ragazze quando fui interrotto da un’alunna, un po’ impavida e giocosa, che mi disse: “Tu sei una pagnotta di pane”. Le altre alunne cominciarono a sorridere, senza che io sapessi perché. Non comprendendo il significato ambiguo delle parole, risposi alla ragazza senza pensarci due volte: “Sì, io sono pane, ma di questo pane non mangerai”. Poi mi sono pentito della mia maleducazione e mi sono scusato: avrei dovuto essere più gentile. Inoltre, quella giovane non stava mentendo…
Un inno della Liturgia delle Ore, nell’Ufficio delle Letture dei Santi Pastori e Dottori della Chiesa, canta: “Grano di Cristo siamo, cresciuti al sole di Dio, nell’acqua sorgiva impastata, segnati dal divino crisma. Facci diventare pane, o Padre, per il sacramento della pace: un solo Pane, un solo Spirito, un solo Corpo, l’unica santa Chiesa, o Signore”. Meraviglioso riferimento ai sacramenti dell’iniziazione cristiana (acqua, olio, pane) che mi hanno aperto le porte alla celebrazione del mistero pasquale di Cristo, nell’esperienza del dono della fede, della speranza e della carità.
“Te Deum laudamus”.
Nel Maranhão, Nord Est del Brasile, mio primo campo sacerdotale di presenza missionaria, ho imparato a cantare con le Comunità Ecclesiali di Base un mantra: “Andando e venendo, buio e luce, tutto è grazia, Dio ci guida”. Con gratitudine, posso cantare il “nuovo canto” del mio sacerdozio, riaffermando che “Dio ci guida” e che “tutto è grazia”, “nelle tenebre e nella luce”. Questa canzone ha molte voci, non è solo mia. Se fosse solo la mia voce, al canto mancherebbe la ricca armonia della diversità del Popolo di Dio. Io lodo Dio al plurale: “Te laudamus”. Molte persone, tanti eventi e realtà mi hanno educato e hanno contibuito per accordare la mia voce nel solenne Te Deum di questo Giubileo, armoniosa composizione dello Spirito Santo e della Chiesa.
Rivisito la mia storia vocazionale, da quando – da ragazzo – dicevo già che volevo essere prete. La mia famiglia non mi ha distolto da questa intenzione infantile. Ero un chierichetto entusiasta e assiduo alle celebrazioni mattutine della Messa, accompagnando mia madre, alla quale dicevo: voglio celebrare la Messa come fa il Padre. Credo che è iniziato cosí il mio interesse per la Liturgia. Mio padre, un modesto agricoltore, non aveva i mezzi finanziari per mandarmi a studiare in un seminario. Ero triste. Un giorno arrivò una lettera del Nunzio Apostolico in Perù, fratello di mio padre, che, conoscendo il mio desiderio, si offrì per pagare i miei studi a Roma, dove mi mandò. Saltai di gioia quando in casa mi comunicarono la notizia, però già pensando all’imminente separazione dalla mia famiglia. Avevo otto anni.
Mio padre mi ha accompagnato a Roma, dove ho terminato la scuola elementare, gestita dalle Suore Oblate del Sacro Cuore di Gesù. Il nome dell’istituto era: “Piccoli amici di Gesù”. Ricordo il ritornello di una canzone che tante volte ho cantato e che ancora oggi riempie il mio cuore di santa speranza: “Piccoli amici siamo di Gesù, alba raggiante di giovinezza, all’orizzonte vediamo brillare un sogno divino: il santo Altare”.
Il 24 ottobre 1958, festa dell’Arcangelo Raffaele, sono entrato nel Pontificio Seminario Romano Minore. Il rettore della casa, un santo sacerdote, mi ha accolto all’ingresso del seminario e mi ha condotto nella cappella della “Madonna della Perseveranza” per salutare la Vergine Maria e ricevere da lei la benedizione di benvenuto. Molte altre volte, ho perso il conto, sono tornato ai suoi piedi per ringraziare, per chiedere e piangere. Sono stati cinque anni bellissimi della mia vita, ma anche visitati da prove e crisi. Ringrazio i formatori che mi hanno aiutato nel mio discernimento, mostrandomi luci nel buio. E grazie a questo discernimento, ho scelto di abbracciare la vita religiosa nella Congregazione delle Missionarie del Sacro Cuore.
Mi sono trovato in un ambiente familiare. Lasciavo un seminario diocesano con poco più di duecento seminaristi e mi trovavo nella mia nuova casa di formazione con meno di venti persone, in una piccola casa alla periferia di Roma. La convivenza fraterna mi ha confrontato con il carisma della Congregazione: essere il Cuore di Dio nel mondo. Il noviziato, gli studi, la pratica pastorale ed altre attività durante la mia formazione iniziale, hanno contibuito a sentire più realisticamente la chiamata alla vocazione religiosa – missionaria – sacerdotale, e a dare una risposta più consapevole a Dio, a me stesso e alla Chiesa.
Venne il momento della mia consacrazione perpetua a Dio attraverso i voti religiosi, aprendomi alla grazia di ricevere gli ordini sacri. Il 7 marzo 1971 ho ricevuto il diaconato. Dopo il tirocinio pastorale, il 31 ottobre dello stesso anno, i Superiori mi hanno presentato alla Chiesa per essere ordinato sacerdote. Celebro mezzo secolo di sacerdozio con emozione e gratitudine a Dio, ricordando tante persone, vive e altre già decedute, che fanno parte di questa bella storia: le terrò tutte per sempre nel mio cuore.
“Colui che ti ha chiamato è fedele!” (1 Tess 5:24)
Ho atteso con il cuore in mano l’Anno di Grazia di Nostro Signore 1971. Ho vissuto il passaggio dal mese di settembre all’ottobre 1971 in preghiera, da solo, nel giardino della casa di formazione, guardando le stelle e canticchiando melodie improvvisate, in quella notte serena dell’autunno romano, danzando nello Spirito, inebriato dalla grazia che annunciava a me e al mondo la “buona notizia”, “come aveva promesso…”.
Infine, il 31 ottobre 1971: 31ª domenica del Tempo Ordinario. Mons. Carmelo Cassati M.S.C., mio cugino, allora giovane vescovo ausiliare della Prelatura di Pinheiro, Maranhão, é stato il vescovo ordinante nella chiesa parrocchiale del Sacro Cuore, a LungoTevere Prati, a Roma. Altri due confratelli sono stati ordinati con me. Mia madre era presente, molto commossa.
Ho posto il mio sacerdozio sotto la protezione di Nostra Signora del Sacro Cuore di Gesù, nel cui santuario di Piazza Navona ho celebrato la prima messa nella solennità di Tutti i Santi. Ho incontrato sacerdoti che mi hanno informato del numero effettivo di Messe celebrate o concelebrate da loro; non ho una registrazione esatta di questo, ma è presumibile che sarei incredulo, senza parole, se lo sapessi! Mi sentirei confuso e piccolo davanti alla generosità di Dio, io che ho chiesto la grazia, quando ero seminarista, di poter celebrare una sola messa: era tutto quello che volevo. Ricordando gli insegnamenti e le testimonianze che ho ricevuto, oggi chiedo a Dio la grazia di celebrare ogni Messa con l’entusiasmo della prima e con grande fervore come se fosse l’ultima.
Nel novembre 1974 giunsi in Brasile: dapprima nello Stato del Maranhão, a Pinheiro (1974 – 1980) e São Luís (1981- 1989), a servizio della fomazione di seminaristi diocesani e dei Missionari del Sacro Cuore. Poi, i Superiori mi hanno dato l’incarico di Maestro dei Novizi a São Paulo (1990) e di Superiore della Sezione Italiana in Brasile (1991- 1993), quando il Papa São Giovanni Paolo II mi ha nominato vescovo di Oeiras-Floriano, nel Piauí (1993- 2001), e poi trasferito alla Diocesi di Crato, nel Cearà (2001- 2016). Oggi, la mia missione sacerdotale si svolge a Tricase, dove sono nato, a servizio dei malati dell’Ospedale e della comunità delle Suore Marcelline che lo dirigono.
Ho affidato il mio sacerdozio e il mio episcopato a Maria, Madre del Bell’Amore. E si sta prendendo cura di questo suo bambino. Se “Dio matura”, la Madre di Gesù intercede perché anche in me “sia fatta la volontà di Dio”. Conducendomi per mano, Maria mi ha aperto sentieri tra le spine e mi sta indicando nuove possibilità per vivere serenamente la mia vocazione, fino alla morte. Sono stato tentato in molti modi, dentro e fuori l’ovile, ho affrontato lupi e volpi, sono caduto in trappole, ho sentito l’amarezza della vergogna a causa della calunnia e del tradimento degli amici, mi sono trovato stanco su “strade di pietre e sabbia”, come cantano i pellegrini di Padre Cicerone in un canto. La Madonna non mi ha abbandonato e so che non mi abbandonerà nemmeno ora. Posso testimoniare a tutti, con affetto filiale: anche Maria “matura” nella mia vita, perché è Madre di Dio, Madre della Misericordia.
In questo Giubileo, ricordo e prego, come nel Santo Rosario, i miei momenti di gioia, di luce, di dolore e di gloria. Papa Francesco, nella sua Lettera ai sacerdoti in occasione del 160° anniversario della morte del Santo Curato d’Ars, scrive: “Continuiamo a credere in Dio che non ha mai rotto la sua alleanza, anche quando noi l’abbiamo infranta innumerevoli volte. Questo ci invita a celebrare la fedeltà di Dio che non smette di fidarsi, credere e scommettere nonostante i nostri limiti e peccati, e ci invita a fare lo stesso. Consapevoli di portare un tesoro in vasi di creta (cfr 2 Cor 4,7), sappiamo che il Signore si manifesta vincitore nella debolezza (cfr 2 Cor 12,9), non smette di sostenerci e chiamarci, dandoci il centuplo (cfr Mc 10,29-30) perché «eterna è la sua misericordia».
Niente nella mia vita è definitivo, tranne la certezza della mia finitudine. E devo essere pronto a rispondere a chiunque chieda ragione della mia speranza (cfr. 1 Pt 3,15). Questo è vivere la speranza che, come ha detto il vescovo Helder, é “non lasciar cadere la profezia”. È vivere nella luce provvisoria e indecisa delle possibilità, perché siamo un cuore pieno di futuro. Cuori in alto! Dio matura.
Per una persona in età avanzata – come me – Dio matura come fonte di esperienze da reinventare. Non posso lasciarmi andare a una nostalgia del passato, perché ogni tempo è un tempo presente: “un tempo favorevole e un giorno di salvezza” (2Cor 6,2). Gesù ci insegna a vivere nell’amore. E vivere nell’amore è la chiave della vita, la vittoria sul peccato, sul senso di colpa che nasce dall’orgoglio e che ci fa deprimere quando falliamo nei nostri sogni.
Hans Urs von Balthasar è categorico: “I peccatori hanno trovato Dio, i giusti lo cercano ancora”. Ricordo una donna considerata peccatrice che chiese a un prete che le aveva negato il perdono: “Tu odi il tuo Dio perché mi ama?”
Dom Pedro Casaldáliga, il nostro vescovo-poeta, ci pone una domanda cruciale: “Alla fine del mio viaggio mi diranno: E tu, hai vissuto? Hai amato? E io, senza dire nulla, aprirò un cuore pieno di nomi”.
Fonte della misericordia è il cuore di Dio. Penso spesso: sono amato, veramente amato. Dio mi ha chiamato, Gesù mi ha scelto, lo Spirito Santo mi ha unto e consacrato: la Trinità ha riversato su di me la sua grazia. Questo mi riempie di meraviglia: io, così indegno, così miserabile, sono amato da Dio. E San Paolo, dall’alto della sua esperienza umana di peccatore confesso, un “vaso d’argilla” inadeguato a contenere la sublimità del tesoro della grazia di Dio, mi incoraggia e mi invita: “Che la pace di Cristo regni nei vostri cuori. Siate grati. In tutta saggezza, cantate a Dio nei vostri cuori” (Col 3:15).
Mi affido a un Dio “malato di misericordia”. Con le commoventi parole di Papa Francesco, “immagino il momento in cui, al crepuscolo della vita, mi avvicinerò a Dio, sedotto da questa bellezza, con l’anima umiliata, il capo chino; immagino il suo abbraccio e il mio sguardo sollevato verso il suo. Non oserei guardarlo senza prima ricevere il suo abbraccio”.
Padre Zeca (Jozef Geeurickx), msc
Parabéns, Dom Panico, desde a terra de San Oscar Romero, onde vou ficar mais um ano depois deste, acompanhando nossos estudantes latinoamericanos de Teologia.
Por favor: acompanhe-os você também com sua oração!