Santuario di Nostra Signora del Sacro Cuore Roma
Tratto da: “Le chiese di Roma illustrate” 105, di Padre Francesco Russo MSC, Nostra Signora del Sacro Cuore (Già S. Giacomo degli Spagnoli), edizioni «Roma», 1969.
Piazza Navona
Lo stadio di Domiziano (o in agone) era infatti il luogo, in cui si svolgevano le gare ginniche in onore di Giove Capitolino, dette – con parola greca – Agoni o (ludi) capitolini. Questi giochi vi si svolsero fino alla seconda metà del secolo quarto, mentre della quasi integrità delle strutture si ha notizia fino alla fine del secolo quinto: poi subentrarono l’abbandono il silenzio il terriccio su cui sarebbero le erbe e dalle quali emergevano le parti più alte del grandioso monumento.
Nel 1477 il cardinale Camerlengo, Guglielmo d’Estouteville, Vi trasferì dal Campidoglio il mercato settimanale che virgola in tempi più recenti (nel 1869) è stato sostituito da quello giornaliero del vicino campo dei fiori. Si pose allora mano alla pavimentazione della piazza virgola che ha acquistato l’attuale fisionomia ed è rimasta quella del grande «salone di Roma». Memorabile ancora allo spettacolo straordinario del 19 Marzo 1492, per festeggiare la cacciata dei Mori dalla Spagna virgola in seguito alla vittoriosa battaglia di Granata.
a metà del 600 la piazza preso il suo aspetto definitivo, con la costruzione della splendida chiesa di sant’ Agnese – opera del Borromini – il Palazzo (Doria) Paphili e la sistemazione delle fontane, tra cui quella centrale, detta dei «Quattro fiumi», dovuta al genio di G.L. Bernini. Ricordiamo, A tale proposito virgola che il 29 agosto 1646, fu emanato l’editto dei maestri delle strade, per «comprar li cementi» delle case, della chiesa e dell’Ospedale di San Giacomo «che fanno isola in piazza Navona avanti la detta chiesa, e incontro il palazzo del marchese Torres», da abbattere «ad effetto di requadrare la detta piazza, conforme all’ordinre di N. Sig.».
La cella di S. Andrea. S. Jacopo de Spanis.
Sull’area dell’antico stadio di Domiziano, sorgevano alcune chiesette: Sant’Agnese in Agone, sul luogo del martirio della giovane romana; A breve distanza, Santa Caterina de Cryptis Agonis (ora San Nicola dei Lorenesi, a via dell’Anima); S. Benedetto, S. Giacomo in Thermis, tra il Palazzo Madama e il Pantheon, nell’area delle Terme alessandrine; infine S. Andrea, nella parte sud-est dello Stadio, presso l’attuale Palazzo Lancellotti.
Questa chiesetta, detta Cella di S. Andrea in Agone, con accluso locale, doveva essere il luogo di residenza del rappresentante dell’Abbazia di Monte Soratte (Grangiario o cellerario), per l’amministrazione dei beni delle dipendenze romane. Di questa Cella si ha notizia in un placito del 9 aprile 998, redatto alla presenza del Papa Gregorio V e dell’imperatore Ottone III, in cui si descrivono i confini delle dipendenze dell’Abbazia di Farfa, i quali toccavano quelli di S. Andrea in Agone, «Cella del monastero di Monte Soratte». Più tardi, in una bolla del Papa Urbano III a favore della Basilica di S. Lorenzo in Damaso, ricorre come S. Andrea de Hispanis.
Come tale viene ancora ricordata dal Papa Nicolò IV (1288-1292), nella conferma della dipendenza del monastero del Soratte: ecclesia que cella dicitur quam habetis in Urbe in loco qui vocatur in agone, compresi case, casalini, prati e saline.
L’ospizio o Ospedale di S. Giacomo degli Spagnoli.
Accanto alla Cella di S. Andrea sorse l’Ospizio o Ospedale di S. Giacomo degli Spagnoli. L’esistenza di questi Ospizi nazionali è antichissima ed è attestata da ampia documentazione. Roma infatti era meta continua dei Romei, che vi affluivano da ogni parte dell’Europa, specie in occasione del Giubileo o Anno Santo. Per ospitare i pellegrini delle diverse nazioni, sorsero allora gli Ospizi o Ospedali nazionali, affidati ad amministrazioni autonome, presso i quali trovavano ricovero non solo i pellegrini veri e propri, ma anche gli ammalati e i poveri delle rispettive regioni.
Anche i sudditi della Corona di Castiglia e quelli della Corona d’Aragona ebbero il proprio Ospizio, che – a quanto pare – nel sec. XII era allogato negli ambulacri del Colosseo, adattati allo scopo. Nel secolo seguente fu trasferito presso la basilica di San Lorenzo di Damaso, dove, tra il cortile della Cancelleria e l’annesso giardino, era il cimitero degli Spagnoli. A questo subentrò, in occasione del Giubileo del 1350, l’Ospizio di S. Maria di Monserrato, a breve distanza dall’attuale via di Tor de’ Conti e di S. Maria della Virtù, presso la S. Maria della Pace.
Non è esatta la data del 1259 e l’attribuzione all’Infante D. Enrico Di Castiglia, figlio del santo Re Ferdinando III, come di fondatore. La notizia, data nel 1510 da F. Albertini nei Mirabilia Romae, e ricordata nella Visita Apostolica del 1629, è passata negli storici posteriori; ma ciò è privo di fondamento. In realtà l’Infante D. Enrico di Castiglia era un soldato di ventura ghibellino, il quale combattè a Tagliacozzo accanto a Corradino di Svevia contro Carlo I d’Angiò, fu comunicato dal Papa Clemente IV nel 1628 e chiuso in carcere a Santa Maria del Monte in Puglia. Liberato, per intercessione di Onorio IV, ritornò in Spagna, dove morì nel 1304. Non era perciò la persona più indicata a fondare un’opera del genere.
Questa invece si deve all’iniziativa di D. Alfonso Paradinas (nativo di Paradina), chierico e Tesoriere del Capitolo di Siviglia, il quale era giò a Roma nel 1446, occupò vari incarichi in Curia, dove risulta fon dal 31 dicembre del 1450. In seguito, ebbe diversi benefici ecclesiastici dai Papi, specialmente dallo spagnolo Callisto III, che gli furono confermati con la bolla del 20 ottobre 1569, quando era già vescovo di Ciudad Rodrigo. Tutta la sua fortuna fu da lui impiegata in opere pie, specialmente nell’Ospedale e nella chiesa di S. Giacomo degli Spagnoli, dei quali egli è meritatamente ritenuto fondatore.
Il Paradinas, divenuto Rettore e Amministratore dell’Ospedale di San Giacomo, incominciò a vendere o a permutare delle piccole proprietà, per acquistarne altre contigue tra loro, nella parte sud-occidentale di Piazza Navona, in modo da formare un isolato della Nazione spagnola. Ne abbiamo notizia fin dal 1452, in cui il Papa Nicolò V «a tutti gli Spagnoli dimoranti in Roma concede la facoltà di vendere o dare in affitto una o due case per esercitarvi l’ospitalità». Sisto IV poi, con bolla del 23 novembre del 1471, confermò una concessione in enfiteusi, fatta dal Paradinas, mentre – ancora «in minoribus» – era Governatore e Amministratore dell’Ospedale di S. Giacomo, verosimilmente prima del 1460, di una casa posta in Recta qua itur de Campoflorenorum ad pontem Sancti Angeli, cui ab utraque parte et recto dicti domus hospitalis et ab antea est via publica. Ancora, il 1° dicembre del 1498, Alessandro VI autorizzava ad acquistare una casa giò di Pietro Aranda de Calahorra, eretico nascosto, posta nella Piazza dell’Ospedale dei Francesi, a favore dell’Ospedale di San Giacomo degli Spagnoli. In tal modo il Paradinas poté abbattere le casupole, adiacenti alla vecchia Cella di S. Andrea, e su di esse costruire, con un piano organico, l’Ospizio o Ospedale di S. Giacomo e di S. Ildefonso della Nazione spagnola. In cui dovevano essere ricevuti e ospitati «tutti i poveri pellegrini di quel Regno ancora gli infermi. E feriti, tenendo sempre a tale scopo medico chirurgo e famigliari, acciocché con carità e sollecitudine fossero renduti a sanità».
Mediante le continue elargizioni dei Sovrani e dei Prelati spagnoli – particolarmente del Papa Alessandro VI, del Card. Chacon, che lo fece erede di tutti i suoi beni ecc. – quanto ospedale prese un grande incremento e divenne mèta preferita di tutti i pellegrini iberici, che si recavano a Roma. Tra questi si vuole ricordare, in modo particolare, Sant’Ignazio di Loyola, che vi trovò ospitalità nella Domenica delle Palme 29 marzo del 1523, mentre era ancora laico. Vi ritornò ancora con i suoi primi compagni nella primavera del 1537, per implorare da Paolo III la facoltà di passare in Terra Santa: «Furono allora riconosciuti da alcuni cortigiani spagnoli e da essi raccolti nell’Ospizio di San Giacomo, non trovando essi decoroso né a sé né alla Spagna, che uomini siffatti andassero elemosinando di porta in porta». Vi fu poi ospitato anche San Giuseppe Calasanzio, fondatore dei chierici regolari delle scuole Pie detti Scolopi, e altri santi spagnoli nella loro dimora romana. Tra i visitatori illustri sono pure da ricordare l’Imperatore Carlo V nell’aprile del 1536 e Cristina, Regina di Svezia, nel 1675.
Nel sec. XVI l’Ospedale di San Giacomo, divenuto centro pulsante della vita religiosa e sociale degli spagnoli residenti o di passaggio a Roma, raggiunse uno sviluppo meraviglioso, tanto che l’Amministrazione, con proprio statuto, fu affidata ad una Congregazione di ben 40 membri, presieduta dal Governatore. La stessa Ambasciata di Spagna si trasferì, sotto Sisto V, nella casa attigua all’Ospedale, in cui rimase fino al 1626, quando passò a Piazza di Spagna, dove ha ancora la sua sede.
Tra le diverse iniziative dell’Ospedale di S. Giacomo, dobbiamo ricordare che ogni anno, per la festa dell’Assunta, assegnava sei doti a ragazze nubili prossime a sposarsi. Clemente VIII, con Breve del 27 agosto 1601, protrasse fino a tre anni il termine stabilito, in cui le beneficiarie avrebbero potuto contrarre matrimonio.
Il secolo XVII registra l’apice della gloria di questo Istituto, che i numerosi spagnoli, residenti a Roma, facevano a gara per rendere sempre più grande ed efficiente. Piazza Navona divenne allora la palestra di feste grandiose, in cui Papi, Cardinali, Prelati, Sovrani, Principi, Ambasciatori e persone di ogni ceto e condizione si davano convegno, per assistere alle diverse manifestazioni annuali, sia religiose che civili: le logge dell’Ospedale di S. Giacomo, magnificamente addobbate, offrivano allora un posto molto ambito per assistere a questi grandiosi e costosissimi spettacoli, che vi si svolgevano con tutta la pompa spagnolesca. Le storie, le cronache, i diari e le impressioni dei turisti del tempo ne tramandano una calda e pittoresca descrizione.
La decadenza della potenza spagnola portò con sé la decadenza della gloriosa istituzione dell’Ospedale di S. Giacomo a Piazza Navona. A questa però non seguì quella dell’annessa chiesa, la quale perpetuò la sua esistenza e la sua funzionalità per circa un altro secolo e mezzo.
La Chiesa di San Giacomo degli Spagnoli
La Chiesa dei Ss. Giacomo e Idelfonso, conosciuta più comunemente come San Giacomo degli Spagnoli, sorse per iniziativa di Alfonso Paradinas di Siviglia, nell’estrema parte sud-orientale dello Stadio di Domiziano, tra il 1450 e il 1458, come si rivela dalla data della più antica iscrizione conosciuta.
L’antica cella di Sant’Andrea fu allora trasformata e ingrandita, con l’incorporazione dei piccoli vani adiacenti. Essa era dipendente dai Monaci di Soratte. Questo nucleo primitivo comprendeva un vasto locale, ad una sola navata (quella centrale), circa la metà di quella attuale, che si estendeva approssimativamente dalla facciata sulla via San Giacomo fino all’altezza della cappella di San Giacomo e della cantoria. Per conseguenza la parte posteriore – quella che dava sul Circo Agonale – restava nascosta da costruzioni minori di nessuna importanza. Ciò spiega la mancanza del primitivo prospetto sulla piazza Navona, la quale in quel tempo era quasi impraticabile, specie in occasione di piogge, che allagavano quasi completamente. Architetto ne sarebbe stato Bernardo Rossellino; ma non saprei con quanto fondamento, specie se si tiene conto della stile di questo illustre maestro.
Trovandosi la chiesa incastrata tra altri edifici, non poteva ricevere aria e luce se non dal prospetto. Questo risultò di una parete liscia, sormontata da timpano con cornice, con portale e grande finestra semicircolare. Alla distanza di pochi anni però questa grande finestra sparì e al suo posto si aprì un rosone disadorno, avente ai suoi lati due lunghe finestrelle, quasi delle feritoie. Su questo prospetto fu collocato un portale monumentale marmoreo, di grande interesse artistico, che ha sempre polarizzato e polarizza ancora l’attenzione del visitatore e, soprattutto, dei cultori d’arte. Era sulla via di San Giacomo. Detta poi della Sapienza, perché vi si affacciava lo Studium Urbis, ossia «La Sapienza» dall’iscrizione che ancora sormonta il portale d’ingresso, che riproduce le parole del salmo: Initium Sapientiae timor Domini.
Il magnifico portale di San Giacomo ora di trova sul prospetto di Piazza Navona, dove è stato collocato nella seconda metà del secolo scorso.
Costruito nel 1463, è uno dei più belli esemplari di puro stile rinascimentale esistenti in Roma, gemello di quello coevo di S. Maria sopra Minerva. Si compone di un’altra cornice, percorsa in tutta la sua lunghezza da un grosso cordone di pietra e sormontata da una fascia di testoline smorfiose di cherubini sorreggenti festoni di frutta e fiancheggianti l’insegna di S. Giacomo: corona il tutto in bel timpano, nel cui vano sono due angeli volanti che sorreggono lo stemma con le armi dei Sovrani di Castiglia e Leon, ora abrase.
Sull’architrave del portale ai trova l’iscrizione dedicatoria del Paradinas, che è la seguente:
AERE SUO ALPGONSUS PARADINAS GENTIS IBERAE
HOC TEMPLUM STRUXIT LUX JACOBE TIBI
UT TUA TE VIRTUS COELI SUPER ARCE LOCAVIT
NUNC SUA SIC VIRTUS ET TUA CURA LOCET
Sul vertice del timpano fu posta una statuetta, di San Giacomo ricavata da una antica colonnina, scanalata nella parte posteriore.
Primo ingrandimento del tempio
Un primo ingrandimento del tempio si ebbe tra il 1469 e il 1478, con concorso di Martino de Roa, Arcidiacono di Campos e Canonico di S. Pietro in Vaticano, come risulta da un atto notarile e da una campana, che porta la data del 1478, che sarebbe l’anno della dedicazione.
Poco dopo, nell’anno 1482, Francesco di Valladolid, scrittore e familiare del Papa Sisto IV, vi fece aggiungere una Cappelli, decorata e dotata di tutto l’occorrente, in onore dei Ss. Andrea e Lorenzo, come si rivela da un Breve dello stesso Papa del 31 dicembre 1482, con cui si elargisce una particolare indulgenza a chi avrebbe contribuito al completamento di detta Cappella.
La chiesa era allora a piante quasi quadrata, a tre navate della stessa altezza, sostenute da pilastri, con tre volte a crociera.
Pur essendo circa la metà di quella che sarà poi nel secolo seguente, nondimeno doveva avere un’ampiezza non indifferente, se il 1° febbraio del 1492 Innocenzo VIII vi si poté recare con i Cardinali, la Corte, il clero e il popolo per la Messa solenne di ringraziamento per la cacciata dei Mori dalla Spagna.
In quell’occasione, dietro preghiera dei sovrani di Spagna, Ferdinando e Isabella, egli elargì l’indulgenza plenaria per la prima domenica di febbraio che poi estese, nello stesso anno. Alla festa di S. Giacomo (24 luglio).
Con l’ascesa al sommo pontificato di Alessandro VI (Rodrigo Borja), S. Giacomo degli Spagnoli riceve un nuovo e più decisivo incremento. Il nuovo papa diede maggiore respiro al prospetto del tempio, facendo aprire una piccola piazza sull’area antistante, che sarà poi utilizzata per la costruzione del palazzo dello «Studium Urbis» o università romana della «Sapienza», da cui prenderà anche il nome la via (della Sapienza), che sostituirà la denominazione di S. Giacomo.
Per il Giubileo del 1500 la chiesa era quasi raddoppiata con l’inclusione della parte retrostante, che va dalla Cappella di S. Giacomo al limite di Piazza Navona: è ancora visibile la chiave di volta o incastro delle due parti della chiesa, che sono nettamente distinte. L’abside semicircolare fu allora sostituita da ampio presbiterio rettangolare, che era compreso tra le tre arcate minori (aggiunte alla fine del Quattrocento) e il prospetto di Piazza Navona. Queste arcate piccole furono murate fino all’altezza dei capitelli, mentre restarono aperte le lunette superiori: la parte murata fu allora occupata dal coro.
In tal modo la chiesa venne a prendere un aspetto singolare: tre navate a volta di uguale altezza: la navata centrale, divisa dalle minori da otto grandi arcate, poggianti su grandi pilastri polistili, sul tipo di quelli adottati dal Rossellina a Pienza: alcuni di essi sono abbinati e altri affiancati da semicolonne. Seguivano altre sei arcate minori, gettate su grossi pilastri quadrati, che fornivano il presbiterio. Le navate laterali, della stessa altezza e lunghezza, solo leggermente più strette della maggiore, furono affiancate da cappelle, diversissime per architettura, ampiezza e ornamentazione.
Costruito a varie riprese e con l’utilizzazione di locali discontinui, il tempio non poteva avere una pianta regolare soddisfacente, specie per il gusto classico della società del Rinascimento. Antonio da Sangallo il Giovane, insieme con fratello Battista e con Labacco, incaricati di preparare un piano generale di rifacimento, previdero un corpo allungato a tipo basilicale a tre navate, con otto arcate a tutto sesto, gettate su altrettante colonne o pilastri, con presbiterio semicircolare. Ma il piano non poté essere attuato, per le spese eccessive che avrebbe comportato, e solo ci si dovette accontentate di alcuni ritocchi, per correggere l’eccessiva irregolarità della pianta.
Il prolungamento della chiesa fino al limite di Piazza Navona e la necessità di dar luce all’interno, che la riceveva solo dalle finestre della primitiva facciata di via della Sapienza, imposero la costruzione di un altro prospetto, dietro il coro, cioè sullo stadio di Domiziano.
Questo, a due ordini, si estese per tuta la larghezza della chiesa: ebbe tre porte, la centrale più grande e le due laterali più piccole, sormontate da finestre più che ordinarie. Tra le porte furono collocati due grandi pilastri lisci, mentre altri quattro, due per parte, furono posti alle estremità: sono tutti di pietra e terminano con capitelli corinzi. Sui pilastri corre la grande cornice di coronamento, anch’essa di pietra.
Notevole il portale maggiore (ora sulla facciata di Corso Rinascimento), costruito da Pietro Torreggiani, in puro stile rinascimentale: poggia su due zoccoli scolpiti (con scudo, elmo e conchiglia); al centro dell’architrave le armi di Castiglia e León; sull’architrave poggia il timpano in marmo dello stesso stile; tra i due una fascia marmorea scolpita con delfini, conchiglie e tridenti. Anche i due portali minori, sormontati da timpano semicircolare, sono opera del Torreggiani, il quale non ha mancato di scolpirvi la solita conchiglia, distintivo dell’Apostolo S. Giacomo il Maggiore.
Sul cornicione si elevava il frontone, con bellissimo rosone al centro, sormontato da cuspide triangolare, retta da pilastri lapidei, terminanti con capitelli dorici. Ai lati del frontone, due grandi volute, in tutto simili a quelli coevi di Sant’Agostino. Sembra che vi abbia messo mano anche Antonio da Sangallo il Giovane.
Lavori supplementari furono eseguiti ancora nel 1500 dallo stesso Torreggioni, con la scalinata d’accesso da parte di Piazza Navona, il rifacimento del pavimento, rovinato dall’alluvione del 1495, e la nuova sacrestia. Da rilevare che il prospetto di Piazza Navona era puramente ornamentale, perché l’ingresso restava da via di San Giacomo, mentre la porta principale del nuovo prospetto era murata e aveva dietro di sé il coro e l’altare maggiore. Il campanile, un po’ arretrato, ma visibile da Piazza Navona, è definito «grazioso», ma si trattava di una piccola torre, con la cella campanaria, in cui furono collegate tra campane di modeste proporzioni. Lungo tutto il secolo XVI e fino alla metà del secolo XVII la chiesa si arricchì di cappelle, di altari, di monumenti funebri e di pitture di considerevole gusto artistico.
Il presbiterio rettangolare, come abbiamo detto, occupava lo spazio compreso tra le sei arcate minori della navata centrale, terminante con la porta maggiore di Piazza Navona, che era murata. Il catino di fondo, opera del Sangallo, richiamava la decorazione della Basilica del Massenzio. Il prospetto dell’altare maggiore, ora a Santa Maria di Monserrato, è tutto in marmo: disegnato da Antonio da Sangallo e scolpito in massimo parte da Domenico Rosselli nel 1537, aveva un magnifico paliotto a riquadri variopinti. Sulla parete di fondo, sovrastante l’altare maggiore, era posta la grande tavola dipinta con bellissimo Crocifisso tra la Madonna e S. Giovanni Evangelista, mentre ai lati vi erano le figure di S. Giacomo e di S. Ildefonso. Erano tutte opera di Girolamo Sermoneta: anche questa tavola si trova attualmente nella chiesa di S. Maria di Monserrato.
Nel presbiterio erano situate:
La tomba di Alfonso Paradinas, fondatore della Chiesa († 1485), rappresentato da statua giacente in abiti pontificali, con sottostante iscrizione;
Tomba del Card. Giovanni De Mella († 1467), costruita dall’urna, con iscrizione, vescovo giacente sul coperchio, sormontato da tre nicchie a conchiglia, occupate dalle statue marmoree di S. Giacomo, di S. Lorenzo e di S. Ildefonso: il tutto inquadrato in una cornice marmorea rinascimentale;
Tomba marmorea di Mons. Giovanni de Fuensalida;
Tomba del Card. Stefano Gabriele Merino († 1525), sotto quella del Paradinas, era formata da sarcofago di marmo, con stessa e insegne, sormontato dalla figura giacente del Prelato. Questi quattro monumenti funebri si trovano attualmente nel cortile adiacente alla chiesa di S. Maria di Monserrato.
Nel muro accanto all’altare maggiore era collocato il bel ciborio marmoreo, dovuto a L. Capponi, piccola variante di quello dei Ss. Quattro Coronati. Nella porticina, sorretta da due Angeli, era stato scolpito il Battesimo di Gesù: le cornucopie portavano lo stemma del Papa Innocenzo VIII.
Negli spazi liberi delle pareti e nel pavimento del presbiterio vi erano molte iscrizioni tombali, riportate dal Forcella, alcune delle quali si conservano ancora nel Museo di S. Maria di Monserrato.
Ad uno dei pilastri, in cui era incastrata la balaustra, era appesa una chiave con catenaccio, tolta da una delle porte di Tripoli. Sotto la quale si leggeva:
Ista clavis est unius duarum
Portarum Barbariae Civitatis
Tripoli nuncupatae quam Deus
In festo S. Jacobi ab infidelib(us)
In minibus Fernandi
Fidelis Hisp. Cath. Regis dedit
Et propterea hic inde ex voto
Debito posita fuit 1503
Tempore Julii PP. II.
Altro insigne monumento è la magnifica Cantoria di marmo che fu costruita sulla porta della vecchia sacrestia, a metà della parete di destra, entrando da Corso Rinascimento. È formata da un’ampia arcata, poggiante su pilastrini di marmo scanalati, e da una balconata marmorea, sorretta da colonnine e pilastri, ugualmente di marmo, variamente dipinti e dorati. Fu eseguita nel 1500 dal Maestro Pietro “scalpellino fiorentino”, che è lo stesso Pietro Torreggiani, già ricordato, con la collaborazione di Bartolomeo di Giovanni. È un vero capolavoro di architettura e di colori, di pretto stile della Rinascenza, in cui una sbrigliata fantasia decorativa, un gusto impeccabile, un morbido scalpello. Ha rilevato sulle colonnine, sui parapetti, sulle mensole, sui cassettoni, trofei di armi ed elmetti cesellati, intrecci di scudi e labari, fiori e foglie di acanto. Al centro della balconata spicca lo stemma di Diego Melendez Valdés, Maggiordomo di Alessandro VI e poi Vescovo di Zamora, che ne fu il commissario. Sulla fascia della medesima si legge:
AD HONOREM ET LAUDEM NOMINIS TUI
L’organo a cinque castelli fu costruito da Maestro Isacco, organio e maggiordomo dell’arcivescovo di Nicosia, Sebastiano de Priolis coadiuvato dai maestri Gabriele, Carlo e Bartolomeo. Questi lavori erano già compiuti entro il 1501, perché il 12 settembre di quell’anno il Torreggiani fu pagato «per aver fatto due volte il ponte per far dipingere da Maestro Antonio tutto l’organo e relativa cassa», mentre il 25 ottobre successivo egli forniva «4 pietre per i mantici del nuovo organo». Sotto la cantoria, al lato sinistro della porta della sacrestia, c’era il monumento funebre di Mons. Pietro Foix de Montoya, con busto in marmo, scolpito da Gian Lorenzo Bernini nel 1630.
Tutti questi monumenti, salva la cantoria, sono emigrati a S. Maria di Monserrato, nella prima metà del secolo scorso.
La cappella di San Giacomo
Di fronte alla cantoria si trova l’opera più insigne di questa chiesa, la Cappella di San Giacomo fatta costruire dal Card. Del Monte, per testamento di Giacomo Serra, Vescovo Arborense (Oristano), detto perciò Card. Arborense, morto nel 1517.
Fu architetto Antonio da Sangallo il Giovane, formatosi alla scuola del Bramante, il quale la costruì tra il 1517 e il 1523, dandole un’architettura classica impeccabile, ma alquanto fredda, da dar l’idea di un edificio pagano di epoca imperiale.
Questa cappella, rettangolare, è tramezzata da lesene di marmo bianco, scanalate, sormontate da capitelli corinzi. Queste sorreggono il grande arco e spartiscono le pareti laterali: su di esse corre la cornice a rilievo per tutta la cappella e serve di imposta con l’elegante lanterna al centro. Sulla fronte di questa cappella è la balaustra di marmo e di marmo sono i sedili, che corrono lungo le pareti.
La parete di fondo, sormontata da grande finestrone semicircolare, è occupata dalla grande nicchia marmorea rettangolare. Fiancheggiata da due colonne scanalate. Accanto alle quali sono dipinte le figure, alquanto più alte del naturale, degli apostoli Pietro e Paolo.
Nella nicchia era la grande statua marmorea di S. Giacomo Apostolo. D’incisiva immediatezza michelangiolesca, scolpita da Jacopo Tatti, detto il Sansovino.
Nei riquadri tra pilastro e pilastro delle pareti laterali furono affrescate da Pellegrino (Aretusi o Munari) da Modena delle scene della vita di San Giacomo: la battaglia di Granata, con l’intervento miracoloso del Santo su cavallo con una spada sfoderata nella destra; l’uscita dell’Apostolo dal Tribunale di Agrippa; la guarigione di un vecchio paralitico; il martirio del Santo, mediante la decapitazione.
Queste pitture, deteriorate dal tempo, sono state restaurate e ravvivate in occasione degli ultimi restauri, ma non tutte sono ugualmente colorite. Sotto l’affresco della battaglia di Granata è stata murata nel sec. XVIII la grande lapide marmorea, che riproduce il testo del breve d’indulgenza plenaria concessa a questa cappella dal Papa Clemente XII il 28 giugno 1732. Nella cappella vi erano pure diversi monumenti funebri con relative iscrizioni, tra cui quella fatta apporre dal Card. Del Monte in onore del munifico benefattore:
Ja. Serrae Ep.o Prenestin S.R.E. Card.
Arboren a. de Monte Card. S. Praxedis
executore ex testament posuit.
Sul pavimento, avanti l’altare del santo, si conserva ancora la pietra tombale del Card. Serra, con iscrizione.
Nel descrivere questa celebre cappella il Vasari scriveva: «Volendo il Cardinale Arborense lasciare memoria di sé nella chiesa della sua nazione, fece fabricar da Antonio (da Sangallo) e condurre a fine in S. Jacopo degli Spagnoli una cappella di marmi et sepoltura per esso: la quale cappella tra vani di pilastri fu da Pellegrino da Modana tutta dipinta; e sull’altare da Jacopo del Sansovino fatto un S. Jacobo di marmo bellissimo: la quale opera di architettura è certamente tenuta lodatissima, per esservi la volta di marmo, con uno spartimento di ottangoli bellissimo».
Le altre cappelle erano disposte nel seguente ordine:
Navata di destra (entrando da Corso Rinascimento):
La prima cappella, dedicata all’Assunta, fu fondata nel 1552 da Mons. Costantino Castillo, il quale lasciò anche 14 legati per la celebrazione della festa della Titolare. Ne fu architetto Francesco Ruviale da Città di Castello; le pitture della volta (non più esistenti) furono eseguite dal fiorentino Pietro Bonaccorsi detto Perin del Vaga, allievo di Raffaello, il quale lavorò anche in vaticano nell’appartamento Borgia. La pala dell’altare invece, con “l’Assunzione della Vergine”, si trova attualmente in S. Maria di Monserrato. Vi erano inoltre 6 statue di marmo, due della quali rappresentavano l’Annunziata, le altre sostenevano lo scudo e la pittura.
La seconda cappella, già dei Ss. Cosma e Damiano, fondata da Pietro de Covarrubias, Uditore di Rota, fu restaurata nel 1583 e dedicata alla Risurrezione del Signore, a spese del portoghese Antonio de Fonseca. La volta fu allora affrescata da Baldassare Croce da Bologna, allievo dei Carracci, con i profeti David, Isaia, Elia, Daniele e una sibilla: uniche pitture ancora esistenti. Nei tre riquadri più in basso c’erano: a sinistra, il “Noli me tangere”, cioè l’apparizione di Gesù alla Maddalena; a destra, “la balena che restituisce Giona”. Nel giro dell’arco, da sinistra, “l’angelo annuncia alle donne la Risurrezione di Cristo”; “l’incredulità di S. Tommaso”; “lo Spirito Santo”; “Gesùappare agli Apostoli dopo la Risurrezione”. Il quadro dell’altare rappresentante la Risurrezione fu eseguito da Cesare Nebbia: attualmente si trova a S. Maria di Monserrato.
La terza cappella, fondata fin dal 1485 in onore della Madonna Immacolata da Francesco Gonzales di Valladolid, andò soggetta a diverse variazioni. Fu rifatta e abbellita per munificenza di Diego Sandoval, con atto pubblico del 3 agosto 1543. Due iscrizioni poste ai pilastri ne tramandavano la memoria ai posteri. Sulla parete di fondo era il delicato prospetto marmoreo, fondato da un arco, poggiante su due pilastrini di rara leggiadria: sull’arco girava la iscrizione:
Francisci Gundisalvi de Valleoleto
pia devotione de suo dotavit
Beatae Mariae Virgini dicavit.
Al centro lo stemma del donatore. La cornice del quadro era ugualmente di marmo, dello stesso stile rinascimentale; i pilastri erano coronati da capitelli e l’arco era adorno di testine d’angeli: la base invece era scolpita con foglie d’acanto e fiori. Nella cornice marmorea era il grandioso quadro dell’immacolata, eseguito da Luigi Primo Gentile nel 1633, per commissione del Card. Moscoso y Sandoval. La festa dell’Immacolata si celebrava in questa chiesa con pompa solennissima e col concorso di tutta la colonia spagnola di Roma. È noto infatti che gli spagnoli, con a capo i propri Sovrani, sono stati all’avanguardia della difesa del dogma dell’Immacolata Concezione di Maria e più volte hanno rinnovato il voto di difenderlo usque ad effusionem sanguinis. Il Papa Urbano VIII, con breve del 26 novembre 1631, concesse che la festa annuale fosse celebrata in questa chiesa con rito doppio di prima classe.
La quarta cappella, subito dopo la cantoria, dedicata a San Giovanni Battista, fu edificata per la munificenza di Golzalvo Martinez de la Peña nel 1618. Sull’altare era collocata una tela del Santo Titolare.
La quinta cappella era dedicata all Ss. Concezione e a S. Anna. Fu dovuta alla munificenza di D. Pietro de Velasco, chierico di Siviglia, il quale nel 1542 vi fece collocare il bel gruppo marmoreo (ora a Santa Maria di Monserrato) della Madonna col bambino e S. Anna e il donatore, che alla base porta la dedica:
Petrus de Velasco clericus hispalensis anticus curialis sacelli fundator Dei opt. max. erga semunificentiae in honorem conceptionis Virginis Mariae havd immemor dicavit anna sal. Hum. MDXLII.
Questo Gruppo marmoreo era ritenuto come uno dei cimeli più cospicui di questa chiesa, insieme col “S. Giacomo” del Sansovino. Nella lunetta di questa cappella c’era l’affresco della “Presentazione di Maria al Tempio”, sormontato da bellissimo stemma a colori, evidentemente dello stesso Velasco.
La sesta cappella era dedicata ai Ss. Pietro e Paolo e fu costruita nel 1571 da Giulia Piacentino, per commissione di Alfonso Ramirez de Arellano. Tra questa cappella e la porta minore di Piazza Navona v’era il bellissimo monumento funebre di Gonzalvo de Veteta, eretto nel 1484. Era formato con l’arca con l’iscrizione: su di essa era stesa la figura del personaggio, racchiusa in un arco marmoreo scolpito, poggiante su finissimi pilastrini, coronati da capitelli: vero capolavoro di arte Rinascimentale. Sotto questo monumento c’era la pietra tombale di Rodrigo Sánchez de Arevolo, vescovo di Palencia, con figura giacente a rilievo e braccia incrociate.
Nella navata di sinistra avevamo:
La prima cappella. Dedicata al Ss. Crocifisso e ai Ss. Pietro e Paolo, Sebastiano, Lorenzo e Rocco. Era stata eretta fin dal 1463, per munificenza di Martino de Roa, già Cameriere segreto del Papa Nicolò V. Sull’altarino quattrocentesco campeggiava un magnifico bassorilievo marmoreo, di purissimo stile rinascimentale, eseguito da Paolo di Mariano, definito da L. Valentini (secondo lo stile dell’epoca) «miracolo di grazia e di maestria».
Diviso in due scomparti, incorniciati in pilastrini scanalati, terminanti in capitelli corinzi, portava nella parte superiore il Crocifisso tra gli apostoli Pietro e Paolo, mentre in quella inferiore recava i Santi Lorenzo, Sebastiano e Rocco (Anche questo si trova a S. Maria di Monserrato).
La seconda cappella, costruita nel 1469, fu dedicata prima a S. Giacomo Maggiore e S. Giacomo Minore in una pittura di Marcello Venusti, poi, nel 1607, a S. Diego d’Alcalà, per munificenza di Giovanni Enriquez de Herrera di Palencia. Ne fu architetto Flaminio Ponzio, fu ornata di stucchi da Ambrogio Buonvicino e di pitture da Domenico Zampieri, detto il Domenichino, dall’Albini e, soprattutto, da Annibale Carracci, con soggetti vari, in gran parte improntati alla vita di Diego.
Questa cappella, detta anche Herrera dal nome del mecenate, aveva la volta a vela, lanternino con finestre tonde in numero di otto.
Lo sfondo del lanternino aveva l’Eterno Padre benedicente, circondato da alcuni angeli. Sull’altare c’era il quadro della Vergine, che appare a S. Diego, in una cornice di legno dorato con bassorilievi di angeli e fogliame.
Sopra il prospetto c’era una finestra con ai lati S. Giovanni Battista e S. Girolamo. Più in basso, sempre ai lati, i Ss. Pietro e Paolo in piedi. Nella volta: quattro ovali con S. Giovanni Evangelista, S. Giacomo il Maggiore, S. Lorenzo, S. Francesco. Ancora: altri quattro quadri con episodi della vita di S. Diego. Due lunette laterali, tra la volta e il cornicione, avevano altri episodi della vita di S. Diego, le quali formavano oggetto anche dei grandi quadri laterali. Tutte queste pitture furono eseguite dal Carracci e dai suoi allievi Domenichino e Albani. Il quadro che era sull’altare, è ora nella chiesa di S. Maria di Monserrato, mentre le altre pitture sono al Museo di Barcellona, qualcuna anche al Museo del Prado di Madrid.
La terza cappella, in onore di S. Idelfonso, fu fatta costruire da Diego Meléndez Valdès, vescovo di Zamora, nel 1501. Ne fu architetto il fiorentino Baccio Pontelli. Il quadro dell’altare, con S. Ildefonso, fu eseguito da Francesco Preciado (1713-1789).
La quarta cappella, in onore di S. Giacomo.
La quinta cappella, dedicata alla natività di Gesù Cristo, fu fondata da García de Gibraleón nel 1495.
La sesta cappella era dedicata all’Annunziata: fu fatta costruire nel 1526 da Diego Dìez, chierico di Tuy. La scena dell’Annunciazione era riprodotta anche da un affresco, avente la Madonna da un lato e l’Angelo Gabriele dell’altro, sopra l’arco della medesima cappella.
La settimana cappella, presso l’attuale ingresso laterale di Piazza Navona, era dedicata ai Ss. Cosma e Damiano e fu edificata per conto di Antonio Fonseca nel 1525.
Le ultime vicende
Le vicende della chiesa di S. Giacomo degli Spagnoli sono strettamente legate a quelle politiche e religiose della Spagna. Quando la potenza della Spagna era tale che Carlo V poteva affermare che sul suo impero non tramontava mai il sole la chiesa della Nazione spagnola a Piazza Navona era un centro di attività artistica, religiosa, culturale e sociale, ammirato e invidiato non solo dagli stranieri, ma degli stessi romani. Quando l’astro spagnolo incominciò ad impallidire la chiesa di S. Giacomo ne seguì le sorti.
Gli spagnoli, prima di chiuderla al culto e abbandonarla, si fecero un dovere di spogliarla letteralmente di tutte le opere artistiche e di sacrestia e trasferirle a S. Maria di Monserrato, lasciandovi solo quelle che non era possibile asportare, cioè i muri, le cappelle (spoglie) e la cantoria. La chiesa abbandonata fu messa più volte all’asta, deturpata e ridotta a magazzino giaceva in uno squallore impressionante. Nei primi anni del pontificato di Leone XIII fu venduta segretamente ai protestanti. L’avv. Carlo Marini «con una violenta polemica svelò il tranello ed ottenne con ordine fulminante della Regina di Spagna, che si rompesse l’iniquo contratto».
Fu allora che il papa pregò il P. Giulio Chevalier, fondatore della Congregazione dei Missionari del Sacro Cuore, di acquistarla e restaurarla per riaprirla al culto. Il P. Chevalier considerò l’invito del papa come un comando, e sperando nella provvidenza e nella protezione della Madonna, invocata col titolo di N. S. del Sacro Cuore, da lui stesso introdotto e diffuso nella chiesa, si decise ad acquistarla.
Aiutato dalle offerte dei fedeli, in primo luogo dello stesso Pontefice, egli acquistò l’edificio, ormai spoglio e pericolante, nel 1878. Furono subito subito iniziati i lavori di restauro e di adattamento, affidati all’architetto Luca Carimini.
Le due prime cappelle delle navate minori furono abolite, per dar luogo alla sacrestia e alla portineria; fu ugualmente abolita la seconda cappella della navata di sinistra e sostituita dalla cantoria con l’organo. La navata centrale, con ingresso da Piazza Navona terminava con ampia abside pentagonale con cinque ampie logge a balconata, salvo la centrale, che era occupata da una grande tela del Sacro Cuore. Infondo all’abside c’era l’altare maggiore in marmi policromi. La parte terminale della navata destra, con corrispondete ingresso da Piazza Navona fu occupata dal prospetto marmoreo policromo, ma al posto centrale dove si trovava la pala del crocifisso del Sermoneta fu aperta una nicchia e vi fu collocata la statua lignea di Nostra Signora del Sacro Cuore. Il culto di Nostra Signora del Sacro Cuore era stato introdotto da poco nella Chiesa dallo stesso fondatore della Congregazione dei Missionari del Sacro Cuore. Questo culto aveva il suo centro in Francia ma con l’apertura della Chiesa di Piazza Navona, il centro fu trasferito a Roma, con l’Arciconfraternita universale di Nostra Signora del Sacro Cuore, mentre la statua, in essa venerata, divenne il modello ufficiale dell’immagine approvata dalla Chiesa non solo per i Missionari del Sacro Cuore, ma per tutta la Cristianità. L’interno del tempio incomincio allora ad arricchirsi strabocchevolmente di ex voto in marmo e in metallo che furono distribuiti lungo tutta la navata e nella parete di fondo.
La navata di sinistra terminava con identico prospetto, ma in stucco, con la nicchia e la statua di San Giuseppe. A destra dell’altare c’era l’accesso alla nuova sacrestia.
La cappella della Risurrezione rimase intatta, ma sull’altare, al posto di quella della Risurrezione, trasportata a S. Maria di Monserrato, fu posta una grandiosa pala di fine 500 con la Madonna del Rosario circondata da angeli e gruppi di santi nella parte inferiore. Nelle pareti laterali sono rimaste al loro posto le due lapidi che ricordano il legato di Antonio Fonseca per questa cappella.
La terza cappella fu dedicata a Sant’Anna rappresentata su tela dal pittore romano G. B. Conti, collocata nella cornice marmorea di rara finezza.
La quarta cappella, subito dopo la cantoria antica, fu dedicata a San Francesco di Paola, con quadro del santo eseguito da V. Pacelli nel 1905.
La quinta cappella fu dedicata a Santa Margherita Maria Alacoque per via della sua devozione al Sacro Cuore.
La sesta cappella, l’ultima, fu occupata da una statua, molto espressiva, dell’Addolorata, oggetto di culto popolare molto intenso. Successivamente in questa cappella fu collocata una statua lignea di Gesù Nazareno con la croce sulla spalla, scolpita da Mariano Pisani,
Nella navata sinistra restò intatta la cappella di San Giacomo ma al posto della magnifica statua marmorea del santo, fu collocato un calco in gesso della medesima. Al centro della parete di sinistra di questa cappella fu eretta, nel 1936, la tomba del P. Giovanni Genocchi (1860-1926), simpatica figura di dottissimo e piissimo missionario, che ha improntato di sé la società romana del primo venticinquennio del secolo passato. Consiste in una lastra di marmo liscio, con al centro un medaglione con la testa del personaggio e una semplicissima scritta:
Joannes Genocchi
Presbyter Ravennas
E soc. mission. SS. Cordis Jesu
Cui vivere Christis fuit
MDCCCLX – MCMXXVI
Il Padre Genocchi trasformò la casa di via della Sapienza in un vero cenacolo di cultura e di pietà, dove convenivano persone di ogni condizione non solo dall’Italia, ma anche dall’estero, fu anche apostolo delle classi umili e popolari.
È il caso di ricordare, insieme con il P. Genocchi altre belle e indimenticabili figure di sacerdoti e religiosi, che in questa chiesa hanno svolto il ministero con zelo, carità e abnegazione: il P. Vincenzo Ceresi, dotto e santo, nonché forbito scrittore; il P. Cerase Gallina, anche lui scrittore di opere spirituali di vasta risonanza, direttore di anime, delicato ed esperto; il P. Emilio Costanzi, che né è stato rettore per più di un quarantennio e che ha dato ad essa tutto il suo amore e tutto il suo spirito di sacrificio.
La settima cappella fu dedicata a San Giuseppe Labre, con una statua di legno colorato. La presenza di questa singolare santo francese, canonizzato nel 1881, è giustificata dalle frequenti visite che egli faceva a questa chiesa durante la sua permanenza romana del 1782. La chiesa, così restaurata, riadattata e dedicata a Nostra Signora del Sacro Cuore, fu riaperta al culto il 23 maggio 1879, festa in Spagna dell’apparizione di San Giacomo. Consacrata dal cardinal Raffaele Monaco la Valletta il 7 dicembre 1881, il giorno dopo, festa dell’Immacolata riprese a funzionare sotto la direzione dei Missionari del Sacro Cuore.
Nel 1923 la cappella del purgatorio, che conserva ancora la primitiva balaustra cinquecentesca, fu restaurata e abbellita per la pietà e munificenza di Pirro de Angelis, romano. Sui pilastri dell’arco furono allora posti due angeli a rilievo in gesso, mentre nella parete di fondo furono aperte due nicchiette, con porticine lavorate, per la conservazione delle Reliquie. Sull’altare fu posto il quadro di Gesù giudice e delle anime purganti.
Durante il tempo fascista entrò in vigore l’attuazione del nuovo piano regolatore della Roma Rinascimentale che prevedeva l’allargamento di via della Sapienza e per dare più largo respiro alla vecchia “Sapienza” e maggiore prospettiva alla grandiosa facciata di Sant’Andrea della Valle. Per questa nuova arteria cittadina, che fu chiamata “Corso Rinascimento”, furono sacrificate la sacrestia e l’abside della chiesa nonché la portineria della casa. Rimasta intatta la facciata di Piazza Navona, fu invece rifatta quella di via della Sapienza. Quest’ultima però fu allineata al grandioso prospetto della casa dei Missionari del Sacro Cuore, sul quale corre il magnifico porticato, con archi a tutto sesto poggianti su colonnine lisce di travertino: la facciata del tempio perciò si distingue solo per la presenza dei tre portali, il maggiore dei quali è sormontato da un grande ovale, di nessun valore artistico, mentre sui due minori si aprono dei finestroni. L’opera è dovuta all’architetto Arnarlo Foschini.
Anche l’altare e la nicchia con il simulacro di San Giuseppe, infondo alla navata sinistra, sono spariti. A questo santo però è stata dedicata l’ultima cappella della stessa navata sinistra sostituendo la grandiosa pala della Madonna del Rosario con una grande tela del santo titolare, eseguita dallo stesso Ballerini nel 1941. Nelle due pareti di questa cappella sono state collocate due tele di media grandezza, una seicentesca di San Giacomo.
Un’altra piccola innovazione: la statua dell’Addolorata che riscuote una grande devozione popolare e che era nella prima cappella a sinistra è stata collocata nella seconda cappella di destra, mentre al suo posto è stata posta la statua di San Benedetto Labre.
In tal modo la chiesa è venuta a prendere l’attuale fisionomia.
Ricordiamo infine che questa chiesa da Papa Paolo VI è stata innalzata a titolo cardinalizio con Breve del 5 febbraio 1965, in cui sono ricordate le antiche tradizioni religiose e artistiche di questo tempio. Una riproduzione di questo Breve si trova esposta nella sacrestia.
Il primo titolare ne è stato il cardinale diacono Cesare Zerba.
Cardinali titolari
Cesare Zerba
Luigi Ciappi
Jose Saraiva Martins
Kurt Kock
1 Arch. Vat., Arm. IV, vol. 74, P.348; Bibl. Casanatese, Editti, t.7, p.115; Bibl. Vitt. Eman., Bandi, t. 5, p.164.
2 Galletti P. L., Del Primicerio della S. Sede apostolica, Roma 1776, p.220.3. Arch. Vat. Miscell. Arm. 58 (al. 2), f. 57; Fonseca A., De Basilica S. Laurentii in Damaso, Fani 1745,250-255.
4. Potthast, Regesta Pontificum Romanorum, n. 23945; Langlois, Les registres de Nicolas IV, Paris 1905, n. 7650.
5. Gregorovius, Storia di Roma, V, 458, 510; Del Giudice, Don Enrico di Castiglia, p.10-11. J. Fernandez Alonso, La Iglesias de España en Roma, 17 ss.
6 In relativo Reg. Lat. (an. II vol. 6 f. 18) manca nell’Arch. Vaticano. Diversi documenti sull’attività del Paradinas a Roma sono segnalati dal Fernandez Alonso, Instrumentos originales en el Archivio de Santiago de los Españoles de Roma, p.558 ss.
7. Reg. Vat. 653, f. 21; Arch. Dell’Amministr. Spagnola, Instrum. Orig., vol. 633, n.24.
8 Reg. Vat. 819, f.48-50.
9. C. L. Morichini, Degli Istituti di pubblica carità ed istruzione primaria in Roma, 1842, I, 119.
10 P. Tacchi – Venturi, Le case abitate in Roma da Sant’Ignazio, Roma 1899, p. 10.
11 Arch. Vat., Arm. 38, vol. 4, f. 54.
12 Trad. ita.: a sue spese Alfonso Paradinas, di nazionalità iberica, edificò questo tempio a te, o Giacomo, luce. Come la virtù ti innalzò sul più alto dei cieli, così ora la sua potenza e il tuo patrocinio possano innalzare lui (cioè il Paradinas).
13 I disegni si conservano nella Galleria degli Uffizi di Firenze, con i seguenti nn.: N.904 (vol. II a c. 29 tergo, n.77): N. 905; N.906, con la pianta della Cappella Grande, che sarebbe l’attuale; N. 909, con la sagoma del «tabernacolo di S. Jachomo», disegnp di mano di Battista da Sangallo. Per i lavori eseguiti del Sangallo v. «Anthologia Annua» 1958, pp. 27-28; 51-52.
14 Trad. Ita.: questa chiave è di una delle due due porte di Tripoli di Barberia, che Dio ha fatto cadere, proprio nel giorno della festa di S. Giacomo, nelle mani di Ferdinando Re della Spagna Cattolica e, per voto, è stata qui collocata nel 1503, al tempo del Papa Giulio II.
15 Trad. ita.: A Giacomo Serra, Vescovo di Palestrina, Cardinale di Santa Romana Chiesa, detto Arborense, Antonio del Monte, Card. Del titolo di S. Prassede, esecutore testamentario pose.
16 Vasari, Vite ecc., Trieste, 1862, p.751.
17 In “L’arte”, 1900, p.269. In “L’arte”, 1900, p.269.
18 A. Marini, Una famiglia romana, Roma, 1932, p. 15.